Le qualità nascoste dell’ingegner Musil
Mauro Covacich, «Il Corriere della Sera».
Nella favolosa galleria di campioni che ci regala Elias Canetti nel Gioco degli occhi, a proposito di Robert Musil si legge: «Era sempre in armi, pronto alla difesa e all’attacco». Nel primo dopoguerra quello che diventerà l’autore de L’uomo senza qualità trasforma la sua postura di ex militare in una specie di corazza mentale, una disciplina interiore che lo induce ad affrontare la vita, anche nei momenti più difficili, «come un greco antico».
Di formazione ingegnere, ma in seguito laureatosi anche in Filosofia, dopo l’esperienza della Grande guerra sul fronte italo-austriaco (come l’ingegner Gadda), rinuncia a un’allettante carriera accademica per consacrarsi anima e corpo alla scrittura. Canetti sottolinea in più luoghi della sua memorabile autobiografia l’importanza della precarietà per questo tipo di vocazione, l’arrischiamento senza rete nel quale lo scrittore deve saper cre- dere per gettarsi nella propria ricerca. A tal proposito ricorda che, prima a Berlino e poi a Vienna, fu organizzata la Musil-Gesellschaft, una società di amici – intellettuali, artisti, tutt’altro che facoltosi mecenati – che si autotassavano per sostenere il lavoro dell’autore de L’uomo senza qualità, il cui primo volume, uscito nel 1930, aveva ottenuto un grande successo di critica ma non certo di pubblico.
È un fatto che mi piace ricordare non solo per la luce che sprigiona, ma soprattutto per la coda divertente raccontata da Canetti. Pare infatti che Musil tenesse la lista mensile dei pagamenti e ai «morosi» mandasse la moglie affinché ottemperassero agli impegni presi. Parliamo insomma di un uomo a cui non faceva difetto la consapevolezza e che, forse grazie a questo, ha saputo ironizzare sulle proprie difficoltà economiche anche nei tempi in cui era praticamente uno sconosciuto.
Ed eccoci quindi dieci anni prima, nel 1920, quando Musil scrive la sua prima pièce teatrale, dove il protagonista, in un dialogo acceso con la Miseria, la rampogna così: «Per Dio, infatti hai iniziato ad amarmi solo da quando ho compiuto trent’anni. E come hai tramato sobriamente! All’inizio solo una visita fugace ogni mese o due, che mi scaldava, ma senza stancarmi. Poi un paio di ore di compagnia al giorno. E da un certo punto eri tutte le notti a letto con me e non era più possibile spingerti fuori dalle doghe». Sto citando da Preludio al melodrame Lo zodiaco, testo inedito e mai rappresentato in Italia, che ora viene pubblicato insieme alle altre due opere teatrali di Musil, I fanatici e Vinzenz, in un libro a cura di Massimo Salgaro, per i tipi dell’editore bolognese Cuepress. Si tratta di un testo di non facile messinscena, tanto che con grande schiettezza lo stesso Salgaro, nel saggio introduttivo, ne sottolinea le scarse potenzialità drammaturgiche e ne suggerisce paradossalmente una sua più idonea fruizione sulla pagina scritta. È peraltro un modo intelligente per trasformare il limite del Lesendrama (dramma da leggere) in una risorsa, favorendo una migliore contestualizzazione di queste opere nella produzione letteraria dello scrittore austriaco.
Il preludio al melodramma è pensato, come si capisce dal titolo, per una combinazione di musica e parola, con parti cantate e parti recitate che non sono collegate da nessi logici né da un’azione scenica. I personaggi non vengono tratteggiati, mancano volutamente di spessore, essendo niente più che figure allegoriche: la Morte, il Freddo, la Donna, il Figlio, il Giudice, eccetera. Ognuna di esse si ferma sulla scena il tempo di un dialogo fugace con il protagonista, l’Uomo, dando vita a una girandola di voci dalle battute salaci, talvolta sprezzanti, apparizioni che hanno la stessa ferocia, la stessa tagliente bidimensionalità, dei volti che compaiono sulle tele di George Grosz.
Dopo un primo battibecco dal sapore beckettiano, l’Uomo si ritrova a ripercorrere in solitudine le figure centrali della sua vita, sulla scia del modello strindberghiano dello Stationendrama. Allo spettatore-lettore non resta che accompagnare il protagonista nel suo viaggio in un passato pieno di acuti e stonature, parto della sua memoria strimpellante. Spezzati, infatti, i nessi della drammaturgia, an- che Musil rinuncia ai rapporti intersoggettivi nel segno del teatro espressionista che, come dice Peter Szondi nella Storia del dramma moderno, «tratta l’uomo come un’entità astratta».
Il Preludio risente molto dell’espressionismo – del suo assunto formale, non già della moda – benché sia evidente, e in molti passi esplicita, la volontà dell’autore di superarlo. L’azione sostituita dal racconto, il doppio registro, tragico e comico, il ritorno al monologo (espunto dal teatro naturalista), i personaggi ridotti a puro schema, all’interno di canovacci che solo nella rappresentazione trovano la loro compiutezza artistica: questi tratti sono facilmente riconducibili al movimento dal quale Musil intende prendere le distanze.
Siamo nel 1920, lo stesso anno del Gabinetto del dottor Caligari, il capolavoro di Robert Wiene, un cinema fatto di lunghe inquadrature fisse, dove gli attori recitano con le facce truccate fino a diventare mascheroni, prigionieri di scenografie che amplificano i loro sguardi allucinati. L’idea di un mondo che vale per sé, che non è copia di nessuna realtà ma nasce, al contrario, nell’attimo stesso in cui va in scena. Da poco è stato fondato Die Brücke, il ponte verso un futuro perfetto, secondo l’auspicio nietzschiano da cui traggono ispirazione Hermann Obrist, Ludwig Kirchner e gli altri fondatori del movimento, pittori animati in egual misura di sentimenti neoromantici e violenta critica al realismo impressionista.
È questa la temperie culturale in cui nascono i drammi di Musil. Ma la sua indole di solitario antagonista lo mette al riparo da ogni mimetismo. Musil non cerca lo scontro frontale con la tradizione, le istanze di rinnovamento dell’espressionismo gli paiono per molti aspetti già superate. È lontanissimo, lui ingegnere, dallo spiritualismo antiscientifico. Trova ridicola l’opposizione tra l’uomo della tecnica e l’uomo nuovo. Non condivide la protesta antiborghese né tantomeno l’afflato giovanilista. Anche riguardo alla profezia di Zarathustra, vessillo degli espressionisti, lo scrittore austriaco reinterpreta le parole di Nietzsche alla luce della sua gelida ironia, in modo che l’Ubermensch (non super- bensì oltre-uomo, come ci ha insegnato Gianni Vattimo) non assuma i connotati di una gioiosa comunità postera, semmai sospinga l’individuo verso una più radicale solitudine.
«Voglio morire da solo», grida a un certo punto il protagonista e, ahinoi, così sarà. In pieno stile musiliano, l’ultima stazione è un dialogo tra due fiocchi di neve in lenta discesa sul cadavere che puzza di grappa. L’effetto sullo spettatore-lettore è garantito: si sta così male che si ride. Certo, si tratta di una lettura anomala, tuttavia per gli appassionati può essere un ottimo modo per concedersi il teatro in casa, magari alternandola alle visioni degli spettacoli in streaming o comunque ripescati in rete.